di Andrea Coco. In questo rally erano riservate ai “Trofeisti” soltanto 6 prove speciali: le prime 4 su asfalto e le ultime due su terra. Al termine dell’asfalto eravamo (Gasole e Coco) saldamente in testa avendo vinto tra gli applausi anche la speciale di Bettola che si concludeva su un ponticello dopo una discesa davvero mozzafiato; e anche un’altra, nonostante un 360 completo. Era intanto sopraggiunta l’oscurità. Mentre aspettavamo il via della prima delle prove su terra, Bebo mi disse: “Sono preoccupato. Non per Bettega, lo controllo. Ma per Fusaro: come sai, Vanni sulla terra cammina come un matto. Non vorrei che ci rovinasse la festa.” “Ma no, gli avevo risposto: abbiamo quasi 20” su Attilio e 30” su di lui. In due prove non ci raggiunge. Stai tranquillo!”.
Pronti? Via! Prima curva in pieno, rettilineo da scaricare terza e poi quella maledetta “esse”. Ce lo ricordammo solo dopo il fatto: era l’unica curva di quella “speciale” che non avevano potuto provare in velocità giacché qualche notte prima, quando arrivammo in quel punto per verificare le note, avevamo dovuto quasi fermarci perché la strada era bloccata da diverse auto e tante persone che stavano soccorrendo -ci dissero- due ragazze finite nel fiume sottostante. Comunque state tranquilli, aggiunsero, non si sono fatte nulla. Così proseguimmo senza più far caso a quelle due curve e senza più tornare a provare quella strada: sulla terra d’altra parte, non c’è bisogno di tante prove! Scoprimmo in seguito che quella pilotessa, finita nel burrone con la sua navigatrice, era Delphine Leroux, la moglie di Daniele Audetto, storico navigatore di uno dei grandissimi degli anni 70, Amilcare Ballestrieri, e molti anni più tardi direttore sportivo della Lambo di F.1; era una delle mie fonti di informazione negli anni -fine 80/inizi 90- in cui per Radio1 seguivo la F.1 in giro per il mondo. Ebbene la Leroux proprio come noi era iscritta al Trofeo; era cioè (o sarebbe stata) nostra avversaria. Fatto sta che la nostra nota di quella “esse” era sbagliata, probabilmente come quella sua.
In gara, quando l’affrontammo durante la notte in terza piena (come in sostanza indicava la nota che poco prima avevo letto) e io abbassai gli occhi per leggere la nota successiva, sentii Bebo urlare un “Nooo!” che mi gelò il sangue. Ebbi solo il tempo di sollevare gli occhi dal quaderno: stavamo scivolando a bordo strada, per poi rotolare più volte giù nel burrone (almeno quattro o cinque “tonneaux”), tra un albero e l’altro illuminato dai fari della nostra auto, sino a fermarci a testa in giù sul letto di quel fiumiciattolo (acqua non più alta di 10 centimetri), per fortuna anche noi senza farci un graffio. Dal canto mio, dopo i doverosi e tranquillizzanti scambi con Bebo “Tutto a posto, non ho nulla”, girai l’interruttore stacca-batteria per la paura di qualche corto circuito che magari potesse innescare un incendio e mi slacciai le cinture, atterrando sul tetto della macchina. Bebo era già fuori. Il mio sportello invece non si apriva e quindi dovetti scavalcare verso quello di Bebo che però non era totalmente aperto. La mia testa, col casco non ci passava. Secondi interminabili con il terrore che qualche altro concorrente potesse finirci addosso. “Apri questa porta, Bebo. O sfondo il parabrezza…!” “No, no”, fece lui, ci sono, quasi!” E infatti riuscì ad aprire ancora un po’ la portiera, quel tanto che bastava per farmi uscire da lì. Finita la prova con il passaggio dell’ultimo concorrente, arrivò quindi il carro gru dell’organizzazione che, usando grosse funi, riuscì a tirar fuori la macchina da quello strapiombo (saranno stati una trentina di metri o poco meno) e a rimettere in strada la nostra A112, completamente ammaccata ma sostanzialmente integra: il roll-bar a gabbia aveva fatto il suo dovere soprattutto proteggendo noi due che, mentre il carro-gru svolgeva il suo lavoro, sorridendo ci guardammo: “Pensi anche tu quello che sto pensando io?” mi chiese Bebo. “Scommetto -risposi con un sorriso- che stai pensando che se qualcuno che sta in alto ci garantisse che non ci faremmo nulla, quasi quasi sarebbe un’esperienza da ripetere!?!” A quel punto scoppiammo a ridere. E quel che è bello è che dopo aver controllato i livelli (la A112 non aveva perso neanche l’olio e men che meno il liquido del radiatore) rimettemmo in moto per tentare di riportarla in albergo e poi eventualmente a Firenze da Giani. Partì al primo colpo nonostante la lunga permanenza (qualche ora) a testa in giù sul letto di quel fiumiciattolo! La riportammo così a Firenze, pestata un po’ dappertutto ma perfettamente marciante ed efficiente!
Peccato per la gara, comunque. Ci tenevo particolarmente al Rally delle Valli piacentine anche perché nella mia mente era impresso un fatto indelebile, importante. Un fantasma che mi toglieva il sonno, da cancellare magari con una bella vittoria, un bel ricordo. Proprio da quella gara del ‘77 infatti era entrata in vigore l’obbligatorietà dell’abbigliamento ignifugo nei rally, per piloti e navigatori, per via di una tragedia capitata l’anno prima in quelle strade delle valli piacentine. Nel 1976 infatti, quando ancora pilota e navigatore potevano gareggiare con qualsiasi comodo abbigliamento -solo qualcuno usava la tuta giusto per comodità o per non sporcarsi in caso di estemporanei interventi su motore o qualsiasi altra parte “vitale” della vettura- la Stratos di Mauro Pregliasco uscì di strada e si incendiò. Il navigatore, Angelo Garzoglio, purtroppo morì bruciato all’interno della vettura. Da allora le autorità sportive avevano deciso per l’obbligatorietà, a partire da un anno esatto da quella tragedia, dell’abbigliamento ignifugo anche per i partecipanti ai rally. E inutilmente dunque avevo sperato che quella mia prima gara con la tuta mi avrebbe regalato un risultato capace di cancellare di colpo le mie paure!
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